Sarà il ricordo - non ancora sopito - dell’occupazione sovietica, saranno i rigori dell’inverno magiaro: fatto sta che per strada, o sulla silouette snella del Ponte delle Catene, le persone in cui ci si imbatte hanno il volto inesorabilmente sormontato da un colbacco di folta pelliccia.
Sul Ponte Szechenyi tira un vento tagliente e il freddo leviga la superficie gonfia di un uggioso Danubio grigio-verde, che con il “bel Danubio blu” di straussiana memoria ha ben poco a che spartire.
Orizzonte ampio, colori pastello: ecco Budapest, monumentale e malinconica capitale ungherese che nell’Ottocento, un anonimo viaggiatore indicava come porta dell’Oriente per chi arrivava da Ovest e come prima città occidentale per chi arrivava da Est.
Sorta nel 1872 dall’unione delle circoscrizioni amministrative di Buda, Obuda e Pest, la Budapest odierna offre ancora al turista moderno il raro fascino di due anime... e di due centri storici: da una parte la movida un pò pigra di Pest, che attraverso l’arteria commerciale della Vaci utca confluisce in Piazza Vorosmarty, dall’altra l’eleganza demodée di Buda, con il suo Palazzo Reale, il prezioso ricamo neogotico della Chiesa di San Mattia e l’arioso colpo d’occhio offerto dal Bastione dei Pescatori. È un imperdibile percorso ascensionale, quello che conduce alla collina di Buda, un cammino a ritroso che si snoda sulle tracce del caparbio testa a testa che nel 1867 avrebbe eroso le resistenze della monarchia viennese trasformato i domini asburgici in un’entità politica bicefala: l’Impero Austro-Ungarico.
Ma Budapest non è solo questo: quello che vi suggeriamo in alternativa ai soliti, triti e ritriti circuiti turistici, è un insolito percorso in due tappe, urbano e non, che vi offrirà scorci alternativi sulla capitale ungherese.
Tappa numero uno: Pest, Mercato Centrale, un im menso padiglione fin de siècle che abbraccia una vitalità debordante da bazar orientale. Allegro e affollato, il Mercato Centrale è un variegato affastellarsi di colori e odori: i banconi tracimano di ogni ben di dio, rape, biscotti, cumuli pantagruelici di petti d’oca, pizzi, ricami. E paprika. Già, come dimenticare la paprika - la spezia ungherese per antonomasia - che infesta i banconi di ogni negozio e la cui presenza è allegramente sbandierata in ogni dove da mazzi scarlatti di peperoncino?
Ma è tempo di andare e recarsi alla stazione di Batthyany Ter per una gita fuori porta. Tempo: quaranta minuti. Destinazione Szentendre, la Montmartre ungherese: un nome impronunciabile (“il Diavolo rispetta la lingua magiara”, come disse Chico Buarque) e stradine silenziose. Szentendre nell’Ottocento era punto d’incontro di pittori e poeti: oggi il villaggio ospita numerosi attori e un numero spropositato di gallerie d’arte. Certo, il profilo dei negozi che si assiepano lungo le vie è volutamente commerciale (come a Montmartre, d’altra parte), ma l’inverno gioca a nostro favore e il freddo esercita un potente esorcismo diradando le folle di curiosi. Rimangono solo il profumo della legna che arde nei camini e i colori accesi delle case. Atmosfera d’altri tempi: la magia di Szentendre è discreta e silenziosa. Assaporatela agli angoli delle stradine o entrate al Folt Café, dove fra stufe e cumuli di legna troverete artisti e comuni mortali impegnati a bere, discutere, cambiare il mondo. Vi accoglieranno come se foste di casa, in una lingua che non è la vostra perché qui si fa così -si conosca o no l’inglese- e per uno degli incomprensibili paradossi che rendono bello il mondo, in Ungheria, dove si parla una delle lingue più ostiche del pianeta, la parola d’ordine è ”comunicare”.
testi e foto di
Martina Fragale