Il Queens College di Cork, distaccamento del Trinity College di Dublino, venne istituito dal Parlamento britannico nel 1845, un pò in riconoscimento dello sviluppo che la città stava vivendo, un pò per piazzare un ulteriore marchio di proprietà su questo importante scalo marittimo, che col suo avamporto di Cobh rappresentava la principale via d’imbarco in direzione delle Americhe.

Quell’anno il raccolto non fu buono: in particolare, le patate furono colpite dalla peronospera, un malanno noto, di cui i contadini avevano conoscenza dalla tradizione orale, ma che sembrava avere effetti ancora più disastrosi che nel passato. Ma se il 1845 andò male, i due anni successivi furono peggio, la produzione di patate risultò praticamente nulla e per l’Irlanda fu la fame e la morte per fame.

Non è facile comprenderlo oggi, ma nei secoli scorsi, la patata era per larga parte dell’Europa settentrionale un alimento basilare come lo era il pane per altre regioni, un prodotto della terra che era facile coltivare e che non richiedeva grandi investimenti. In più non era abbastanza appetibile per farne lievitare il prezzo e costituiva quindi la principale fonte alimentare delle classi umili: in Irlanda i poveri vivevano di patate, i miserabili delle bucce. Queste due categorie sociali rappresentavano il 90% della popolazione in un paese rigidamente diviso tra protestanti inglesi e cattolici indigeni, dove le ricorrenti rivolte non avevano nemmeno scalfito lo stato di sudditanza di questi ultimi, dove la proprietà terriera era latifondista e dove l’odio e il disprezzo erano la regola.

 

La metà Ottocento fu un periodo tragico per l’Irlanda che ha lasciato segni indelebili e ancor oggi quell’epoca viene semplicemente ricordata come ‘the famine’, la carestia senza aggettivi, come se mai si fosse patito la fame prima e dopo. Il mancato raccolto ridusse i contadini sul lastrico, mentre i padroni non dimostravano particolare comprensione: si assistette a quasi 800.000 sfratti, le capanne fatte con rami d’albero divennero la regola ai bordi dei campi e delle città; famiglie sempre numerose si muovevano verso i maggiori centri sperando nella carità privata, essendo i soccorsi dello Stato scarsi e centellinati. Se la situazione non degenerò in rivolta non fu per fare dispetto a Marx che in quegli anni teorizzava a Londra l’ineluttabilità del trionfo proletario, bensì perchè la prostrazione fisica e psicologica delle classi povere era tale da non contemplare la prospettiva della riscossa.

Gli Irlandesi scelsero quindi la via della fuga dalla fame e dalla prigionia, indirizzandosi verso il paese della libertà per eccellenza dove i compatrioti erano già parecchi: fu l’esodo. Centinaia di migliaia di uomini, donne, bambini si trascinarono verso sud, verso il porto di Cork, da dove partivano le navi per New York e Boston, verso il sogno che per la maggior parte di essi sarebbe rimasto tale. La contea di Cork, da Kinsale a Bantry Bay, all’estrema punta di Mizen Head, divenne un immenso campo profughi, dove ogni giorno si raccoglievano i morti: a Skibbereen, il ground dell’antico monastero di Abbeystrewery venne trasformato in fossa comune e sulla riva di un mare che non li aveva voluti, trovarono riposo migliaia e migliaia di persone.

 

Il boom irlandese dei nostri anni Novanta, quelli che hanno introdotto il Nuovo Millennio, comincia anche da qui, dal cimitero della secolare abbazia, dove un’iniziativa locale che trova molto seguito, sta tentando di dare un nome ai ricordi: e pare incredibile, ma dopo centocinquant’anni di oblio, sono migliaia le segnalazioni che piovono da tutto il paese e dall’estero, per ricostruire storie individuali e familiari e tributare loro almeno l’omaggio della memoria.

Nel 1801 gli Irlandesi erano circa otto milioni e mezzo, nel 1901 quattro; gli altri se ne erano andati, almeno un milione per gli stenti, gli altri in America: in cent’anni, dall’antica terra dei Celti vi arrivarono sei milioni di persone. A distanza di un secolo gli Irlandesi sono più o meno gli stessi quattro milioni, ma, da remissivi e un pò fatalisti, si sono trasformati in tigri, Tigri Celtiche per l’appunto, che per un decennio hanno stupito l’Europa per i tassi di crescita economica e per la vivacità della loro iniziativa.

 

L’area di Cork, cioè il sud est dell’isola è una delle zone dove questo sviluppo è più visibile e la città, che da sempre è la seconda dell’Irlanda, oggi più che mai rivaleggia con Dublino. Il paese, che ha praticamente saltato la fase dell’industrializzazione spinta, non ne ha nemmeno subito gli svantaggi e oggi può vantare un territorio che non ha uguali in Europa per qualità dell’ambiente. Non solo, ma la tradizione agricola ha consentito di dedicarsi a una produzione d’avanguardia sia nelle coltivazioni, sia nell’allevamento: le pecore continuano a fornire maglioni e i cavalli a vincere le corse.

In più, l’Irlanda ha dato della sua adesione all’Europa un’interpretazione da manuale, che ha rappresentato il vero jolly nel suo progresso di questi ultimi dieci anni. Le parole chiave si chiamano investimenti (i soldi comunitari sono stati votati alle infrastrutture e a all’istruzione), burocrazia ridotta al minimo (per fare la patente basta chiederla), poche tasse (sugli utili d’impresa si arriva al massimo al 12%). Oggi il panorama è senz'altro cambiato e il vento della crisi mondiale sta soffiando impetuoso anche qui, anzi soprattutto qui, dove si stanno ora tirando le conseguenze per qualche ebbrezza che ha sconvolto un paese abituato ad avere i piedi per terra. Ma credo che vincerà alla fine l’ottimismo di un paese giovane che sa di giocarsi una partita storica: il 38% della popolazione ha meno di 25 anni e nessuna voglia di guardarsi indietro.

 

La modernità si sposa peraltro con la difesa della tradizione e in particolare della lingua: i 760.000 irlandesi che trent’anni fa ancora parlavano abitualmente il gaelico sono quasi tutti di queste parti, della costa sudoccidentale del paese. Oggi l’antico linguaggio dei Celti ha perso ogni significato aggressivo di contrapposizione all’inglese, perchè non ve ne è più bisogno, così come gli irlandesi hanno smesso ogni complesso di inferiorità. Il gaelico è diventato quindi il simbolo di una storia complessa che viene poco a poco recuperata, un lavoro in cui si scrostano le mani di vernice sassone per riportare alla luce l’affresco di una comunità millenaria.

Cork, che in questa operazione di archelogia culturale è punta di diamante, è una città di 236.000 abitanti, con tutte le carte in regola per continuare la sua gara con la capitale. Se Dublino esibisce Temple Bar, Cork ha fatto rifiorire l’English Market, quartiere di acquisti ma anche di sosta e di socializzazione; al Patrick Guilbaud della capitale, l’unico due stelle Michelin in Irlanda, Cork affianca una ‘quattro-giorni-quattro’ di ottima cucina nazionale con il pantagruelico e raffinato Festival internazionale di Kinsale, primo porto irlandese per il vino fin dal 1569; agli itinerari di Joyce, dubliner per eccellenza, Cork contrappone una tradizione di film maker e di studi sull’Decima Musa (curati per decenni dall’Università) che ne fanno una delle capitali europee in questo campo.

Cork è anche città molto bella, vivace, ricca di manifestazioni di ogni genere che si tengono per lo più alla City Hall e al Triskel Arts Centre, ma anche per strada e nelle Chiese.

 

Uno di questi edifici, St. Anne’s Church, tiene un posto speciale nel cuore della gente. Nel dicembre 1891 Annie Moore, quattordici anni, di Cork, salì sul piroscafo assieme ad altre migliaia di compatrioti e arrivò a New York un mese dopo, dove ebbe l’onore di essere la prima immigrata a dover sopportare l’esame che le autorità americane avevano appena introdotto per selezionare l’ondata di arrivi. Riuscì nella prova, fece fortuna e cominciò a mandare soldi in patria perchè vi costruissero una chiesa, tutt’oggi imponente per l’altezza, con i suoi campanili che svettano sopra la città: ancora adesso, chi parte per mare in direzione Atlantico si porta dietro le guglie di St.Anne come ultima immagine dell’Irlanda.

Carlo Vezzoni