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Venerdì 2 maggio 2014
Posso quasi dire di non aver fatto in tempo ad addormentarmi che già mi devo svegliare. Sono le 2.00 e metto il naso fuori dalla tenda: le ultime nuvole resistono in cielo, ma è evidente che ci sorriderà presto una bella stellata. Trangugio del tè bollente e ingurgito grassi e carboidrati: saranno preziosissimi fra qualche ora. Alle 2.45 siamo con gli sci ai piedi, pronti per partire.
Ci avviamo. La traccia, creata dai Tedeschi che ci precedono, sale decisa ma regolare. Le nostre ombre danzano alla luce delle frontali; il silenzio è rotto solamente dallo sfregolio delle pelli sulla neve. E dal mio respiro. Dinnanzi a noi sta Lei, la Montagna che ci accoglierà tra le sue braccia; sopra le nostre teste splendono ora miriadi di stelle, alle nostre spalle scintillano le luci della vallata.
Il ritmo è volutamente basso, dobbiamo conservare le energie per quando l’aria sarà più rarefatta e il vento ci taglierà la faccia e ci gelerà le mani. D’altra parte dobbiamo ridurre al minimo le pause: quando le nuvole si addenseranno sulla cima dovremo essere in dirittura d’arrivo. Considero le due stelle cadenti come un segnale propizio.
Alle 4.15 raggiungiamo i 3900 m di quota: siamo in anticipo sulla tabella di marcia. Non sono per nulla affaticato. Mangio una barretta. Poco prima delle 5.00 incominciano i primi bagliori. Nell’estrarre la macchina fotografica perdo uno dei due scaldini chimici che tenevo nei guanti. Accidenti. Per ora, comunque, il vento si mantiene leggero e non fa eccessivamente freddo.
L’alba è una magia. Il cielo assume una tinta rosata e si rendono evidenti i dolci profili innevati delle montagne. Ma il vero spettacolo è dato dall’ombra del Gigante che si proietta su fino al cielo. Non posso astenermi dall’immortalarlo con una foto. E uno scatto lo merita anche il contesto dell’ascesa. Sale il vento.
Poco dopo le 6.00, raggiungiamo il deposito sci a circa 4300 m. In attesa che il gruppo si ricompatti, mi copro e mangio qualcosa. Tolgo i guanti per indossare i ramponi e aiuto Gabri che ha difficoltà con i suoi. È il momento chiave della salita: qualcuno mostra i primi segni di cedimento, più che altro psicologici. Mentre Yusuf prosegue sci ai piedi, noi incominciamo a salire la rampa di neve e sassi che ci sovrasta. Mi sento in forma. Scruto i volti e le movenze dei miei compagni per capire chi lo è di meno. Il vento, sebbene non eccessivo per la quota, non dà tregua; il sole, che ci illumina quando divalliamo a est, dona un piacevole tepore. Sfortunatamente dura troppo poco, spazzato via dalla prima nuvola. Sono solo le 7: è in anticipo. Ma nessuno gliel’ha detto. Beffarda, inghiotte il sole e riduce la visibilità. Abbiamo da poco superato i 4400, vacillano le speranze di vetta. Vado in testa a batter traccia. Cercando le zone migliori, non si affonda più di tanto.
4500: sono ben coperto, piumino e passamontagna fanno il loro lavoro; sono le mani, al solito, a darmi qualche problemino.
4600: le tanto sperate schiarite non si palesano, la Montagna resta avvolta in una nebbia che rende il tutto uniforme e lattiginoso. Sono pochissimi i punti di riferimento: qualche masso ornato dal ghiaccio e poco altro. Il medesimo ghiaccio che ci ricama i volti. Tengo in tasca del cibo, sarà più facile estrarlo quando ne sentirò/sentiremo il bisogno.
4700: le dita cominciano a darmi fastidio, le muovo nel tentativo di mantenerle calde. L’acqua nella bottiglia assomiglia più a una granita. Lucie accusa un inizio di cefalea. Lo tampona con del cibo e un’aspirina. A pensarci bene, anch’io ho un cerchio alla testa , ma è dovuto allo stringere della maschera. A parte questi piccoli fastidi, continuo a stare bene. Manteniamo il gruppo compatto: al contrario di quanto pensassi ieri, è l’unico modo per raggiungere la vetta. E senz’altro il più bello.
4800: ho il fiatone ma vado ancora bene, le gambe non sono più di tanto affaticate. Ho freddo alle mani, quello sì. Mi gioco un sorso di tè caldo.
4900: incrociamo i Tedeschi che rientrano. Parlano di un tratto ghiacciato da superare, infattibile in queste condizioni. Proseguiamo. Siamo più alti del monte Bianco, chi per un motivo, chi per un’altro, stiamo tutti stringendo i denti. La forza reciproca sta nell’avere gli altri accanto.
Ai 5000 m, che poi magari son 4990, quando dall’anticima si dovrebbe traversare alla vetta, rinunciamo: non si vede nulla. Yusuf, d’altra parte, è categorico. E pure a me la scelta pare ragionevole. L’unica possibile.
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Quella di oggi sarà una giornata di relax: visiteremo un palazzo ottomano, proveremo l’acquisto in una bottega di tappeti, faremo un salto dove giace l’Arca, ci affacceremo al confine iraniano, ci rilasseremo nelle sulfuree acque di Dyadin. Ma prima c’è da dare l’arrivederci alla Grande Montagna, già incappucciata di buon’ora.
Il palazzo di Ishak Pasha sorge sulle colline ad est di Dogubayazit. Terminato nel 1780, è, in Anatolia, l’unica struttura ottomana di questo tipo che è pervenuta fino ai giorni nostri. L’architettura è un magistrale connubio di stili: selgiuchide, ottomano, georgiano, persiano e armeno. Oltre il portone di ingresso si accede ad un primo cortile aperto a mercanti e ospiti. Una fontana sgorgava acqua e latte per ventiquattr’ore al giorno.
La seconda tappa odierna è dedicata alla visita di una fabbrica e rivendita di tappeti. Pare che essa funga anche da scuola e dia opportunità di lavoro, direttamente o indirettamente, a un paio di centinaia di donne che, fino a qualche tempo addietro, erano costrette a sposarsi in giovane età per far fronte alle ristrettezze economiche della famiglia di origine. Se ciò non è vero... beh fa comunque presa sul visitatore.
I rilievi intorno a Dogubayazit sono magici. Oltre a Grande e Piccolo Ararat, ci sono una moltitudine di montagne e montagnette che rendono più aspro e vivo il paesaggio. Su una di queste la leggenda vuole che si sia spiaggiata l’Arca di Noè. E noi siamo lì a capire se poterci credere o meno. Mustafa ci indica una figura rilevata rispetto all’erba, dalla forma e dalle dimensioni compatibili con una grossa imbarcazione: in effetti l’avevo individuata anche senza aiuto. Ma la vera attrazione del posto è il guardiano del fatiscente museo che qui è stato eretto. Più che alcuni presunti resti dell’Arca, colpiscono i gesti ieratici del vecchio, i suoi sguardi, la sua attesa dei tartari. O forse lui li ha già incontrati i Tartari.
Alla prossima.
Luca Vezzoni
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Una pedalata nel dedalo delle oasi per poi salire sul Jebel Sarhro, fra guglie, picchi e antiche colate laviche. E poi, ancora, le celebri Gole del Todra e del Dadès, le kasbe secolari e infine Marrakech, brulicante di vita. Dal sellino della mountain bike ci si inoltrerà nel labirintico intrico del palmeto di Zagora e si percorreranno i sentieri zigzaganti fra gli orti e le kasbe di terra pressata. Un modo insolito, e attivo, di visitare alcuni dei luoghi più affascinanti del Sud del Marocco e di immergersi nelle sue atmosfere e nei suoi straordinari paesaggi. La proposta viene da Cobratours, Tour operator italiano con sede a Marrakech dal 1990, specializzato nella creazione di viaggi personalizzati, tematici ed emozionali in Marocco.
L’itinerario, ricco di scenari suggestivi, offre livelli diversi di difficoltà, con un misto di sterrato veloce, terreno duro e asfalto. I chilometri complessivi possono sembrare elevati, ma l’assistenza permanente dei fuoristrada con portabici consentirà ad ognuno di effettuare la tappa nella lunghezza desiderata e di approfittare del veicolo nei passaggi più difficili.
Veramente straordinari i luoghi attraversati. Il Jebel Sarhro è un massiccio di origine vulcanica, dai paesaggi spettacolari, frequentato da pastori transumanti. Ai suoi piedi si stende la valle del Todra, resa famosa dalle gole attraversate dall’omonimo fiume, uniche in Marocco per l’altezza e per essere una strettoia larga poche decine di metri. L’altra valle che si percorrerà sarà quella del Dadès (foto On the Road), incassata fra rocce di granito dalle forme bizzarre, che si estende fino a Ouarzazate, fra roseti, palme e rocce erose dal vento. Da qui si erge la grande montagna, l’Alto Atlante. Si raggiungerà quindi il suo passo più elevato (Tizi ‘n Tichka, 2200 m) percorrendo la “Strada del sale”, un tempo custodita dalla tribù di Ait Benhaddou (foto On the Road), con le antiche miniere di salgemma. Lungo il percorso si faranno visita alla kasba di Ait Benhaddou, una delle meglio conservate del Sud. Ultima tappa, Marrakech, la città rossa, cinta da 19 km di mura di terra battuta, con 209 torri e 9 porte.
Dal 12 al 17 ottobre
LA DRAA IN MOUNTAIN BIKE
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Il monte Ararat si trova nella Turchia orientale, al confine tra la regione dell’Agri e dell’Agdir, in un territorio brullo e arido che storicamente ha fatto parte dell’Armenia. Nell’immaginario collettivo questa montagna è connessa al mito dell’Arca di Noè, che la Bibbia descrive essersi ancorata sulla sua cima, in seguito al diluvio universale. Da sempre molti hanno cercato, senza esiti certi, di individuarla, anche Marco Polo nel 1300 e l’astronauta James Irwin di recente.
L’Ararat si trova in una posizione geopolitica molto delicata, poiché si colloca al confine tra Russia e Turchia, tra il mondo islamico e quello cattolico, e rappresenta quindi un sito strategico da un punto di vista geografico. Già di per sé, la parola Ararat, contiene un contrasto, che si è tradotto in uno dei drammi più terribili del XX secolo: il genocidio armeno. Ararat nella lingua armena, significa “luogo creato da Dio”, mentre in turco, assume un significato opposto: “la montagna del dolore”. Per tutti questi motivi, la zona dell’Ararat è stata inaccessibile per moltissimo tempo, ed è tuttora oscura da un punto di vista scientifico.
Se in molti collegano l’Ararat al mito dell’arca di Noè, quasi nessuno sa che in realtà si tratta di un vulcano, e che rappresenta la vetta più elevata dell’intera Turchia. È per la precisione un vulcano strato, geograficamente distinto in Piccolo (3.925 m.) e Grande Ararat (5.165 m.), e fa parte di una cintura di vulcani che si allineano per circa 70 km, partendo dalla zona più orientale della Turchia (al confine con l’Armenia) sino al confine con l' Iran, nella magmatica Anatolia dell'est.
Siamo perciò di fronte ad un sistema di vulcani estremamente esteso e molto consistente, del quale però non si conosce quasi nulla e di cui la comunità scientifica internazionale non si è mai potuta occupare in maniera dettagliata.
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Il drammatico cambiamento climatico in atto nel Pianeta, i disastri che può provocare, le soluzioni da immaginare: decine di video su questi temi,creati da giovani registi di ben 70 Paesi, stanno conquistando in questi giorni il cuore di Manhattan. Per iniziativa di un progetto della Banca Mondiale sponsorizzato anche dall’Italia, i famosi mega-schermi di Times Square trasmettono ogni 15 minuti brevi clip con immagini della siccità nell’Afica sub-sahariana, delle alluvioni nelle Filippine, o di fenomeni meteo estremi in vari angoli del pianeta.
Si calcola che più di 300.000 persone al giorno passino per Times Square (foto On the Road). Studi scientifici - spiega una nota della Banca Mondiale - dimostrano che i mutamenti climatici sono un rischio crescente ed affliggono in particolare i più poveri e vulnerabili che hanno meno risorse per adattarsi ai cambiamenti. Senza azioni coraggiose da parte dei governi, delle società e del mondo del business, il fenomeno climatico mette lo sviluppo economico in pericolo e minaccia di far regredire le conquiste degli ultimi decenni.
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